martedì 18 ottobre 2016

Recensione "IL COMMERCIO DI ANGELI ROSA" di Dalila Speziga (EDIZIONI MAURO MIOTTI)

"Dedicato a tutte le donne vittime di violenze e abusi sessuali e a tutte quelle famiglie di bambini scomparsi e non ancora ritrovati che ogni giorno si svegliano con la speranza di trovare il proprio figlio davanti agli occhi e di poterlo stringere di nuovo e riaccendere così la luce di quella vita ormai spenta. Non perdete mai le speranze, lottate senza mai arrendervi, non si sa mai quello che la vita ha in serbo per noi".


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RECENSIONE


tutte coloro che considerano romantica la violenza, poetico il maschilismo assoluto di un uomo che vede in te soltanto un corpo di possedere, consiglio di leggere il romanzo denuncia di Dalila. Se ne escono ancora convinte che il masochismo, il sesso estremo sia una ventata di freschezza allora sono completamente irrecuperabili.
E’ facile amare la trasgressione quando non si è vittime, ma questa superficialità nei rapporti è un insulto a quello che vivono milioni di bambine sfruttate, rapite private dell’innocenza. Qua, in questo romanzo è scritto nudo e crudo tutto l’orrore che una distorta concezione del femminile causa. Perché la vicenda di Wendy è responsabilità non soltanto di barbare usanze, di schifosi commerci, che usano la lussuria come la nuova frontiera dell’imprenditorialità. Ma è responsabilità del modo con cui ogni cultura e sottolineo ogni, dalla più degradata alla più sofisticata, ancora considerano la donna. E ne sono testimoni i libri, gli spettacoli TV, i giornali che ancora reiterano la concezione che, in fondo la donna è materia e soltanto uso e manufatto a favore della bestialità umana.
E invece Dalila dice no. Un no coraggioso e sofferto che si evince da ogni pagina, con la forza indomita di descrivere situazioni al limite dall’orrore senza cedere al disgusto che si avverte in ogni riga. Si perché la nostra giovane autrice partecipa davvero alla vicenda. La racconta con toni che oscillano tra il dolore e l’indignazione perché sa che è un caso del fato che lei si trovi dall’altra parte. E diventa una missione il poterlo denunciare; anche nel suo piccolo può modificare la vita di ogni bambina sfruttata.
Dalila sa che scrivere è potere e usa questo potere non per guadagnare, ma per plasmare un alternativa valida a un mondo che continua imperterrito a sottomettere la donna. E Dalila tratteggia una realtà, a volte le costa lacrime e sangue, non solo per la fatica fisica ma per il pathos morale di certe descrizioni, perché sa che esistono che sono attendibili che accadono sempre e accadranno ancora se non si alza la voce, se no si dice no.
Eppure riesce a dare un soffio di speranza con l’amore che illumina vite distrutte, con l’attenzione all’altro, con la solidarietà, quasi come se sussurrasse che a volte basta una mano tesa per non soccombere al male. E qua il male non è una sorta di demone cornuto, il male è tangibile, si presenta sotto forma di sete di denaro che porta a un irrispettoso agire di chi non vede oltre gli stereotipi di genere. Dalila piange descrivendo, con toni lievi e rispettosi, lo stupro come non soltanto una violazione del corpo ma dell’anima, atto schifoso, che desidera fortemente annullare la persona con una ferocia senza significato se non quella di un lontano rancore territoriale. Come se Wendy, spersonalizzata e considerata un mero numero tre, fosse il capro espiatorio di ogni stupido contenzioso territoriale e economico. Come se l’essere umano valesse di meno di una moneta, di uno stato o di una bandiere.
E’ questa la libertà? Il rivendicare la propria cultura spezzando vite? Spezzando sogni? No. Dalila lo dice chiaro: la presunta pretesa di combattere in quel caso l’occidente e ogni nemico, è una scusa. L’intento vero  è stabilire un ordine sociale di vittime e carnefici, di esseri superiori che decidono la vita del diverso come se fossero loro Dio. Una bestemmia verso la vita, verso la donna che è stata relegata da angelo a utensile. La donna come proprietà in cui conta solo la bellezza, l’attrattività, la disponibilità estorta con la coercizione. E Wendy si perde in quel labirinto di oscurità sottomettendosi soltanto per poter conservare la lucidità mentale, come se il suo animo le desse la resistenza necessaria per non cedere. Cedere significherebbe far vincere quel mondo osceno che è stato instaurato per paura e debolezza. Si perché i carnefici di questa ragazzine sono esseri deboli, esseri che sostituiscono la sicurezza di se con la brutalità, schiavi essi stessi, di impulsi bassi e beceri, incapaci di partecipare alla vita conquistandosi un loro esclusivo posto al sole. E una cultura impregnata di questo tipo di fragilità si rifà a spese di anime sognanti, piene di possibilità come se distruggere bambine fosse un modo vampiresco di succhiarne le energie. Descrive tutto questo orrore Dalila senza rinunciare alla delicatezza, senza indugiare nella morbosità, un rispetto per le vittime, per quel dolore che è una voragine di abisso nel cuore di donne coetanee o addirittura, più piccole. Lo fa a volte con un mormorio, come a voler rassicurare le vittime durante quegli orrendi attimi. Eppure non può non piangere con loro, arrabbiarsi, disprezzare, urlare che il suo racconto è orribile, non orribile per la scrittura ma per l’argomento trattato.
E per dare un senso a questo “raccapriccio” ecco che l’autrice mette un raggio di speranza in quel buio oscuro: l’amore. Un amore che è reale e curativo, che lenisce ferite ma che, soprattutto dona coscienza. E’ grazie all’amore per Wendy che Darehes rompe il legame con la sua famiglia, con un’eredità scellerata e sceglie finalmente una vita diversa. E’ l’amore che non permette a Wendy di morire dentro, ferita, sporca ma non del tutto annientata.
Un libro forte, nonostante la delicatezza di una giovane autrice che ha il coraggio di imporsi diversamente sulla scena letteraria, diversa dalle sue coetanee perse in un rincorrere la scabrosità scenica dei testi , un libro che a tratti è cosi forte da toglierti il respiro ma che leggi senza sosta, accompagnata dalla mano forte seppur a volte tremante di una ragazza come loro, che si fa portavoce di tutti quei gridi inascoltati. Non so perché un libro del genere non è alla prime classifiche. So che è diventato parte nella mia anima, il libro che darei a mia figlia, che farei leggere nelle scuole perché la voce di Dalila, di Wendy di Savannah racconti e non smetta mai di raccontare l’orrore. Perché soltanto raccontandolo lo si può sconfiggere:
Raccontai tutto quello che mi era successo senza battere ciglio, erano la mia lingua e la mia bocca a parlare, non il mio cuore. Una volta che si riesce a non far parlare il cuore, si soffre meno e si dice di più.Non avrei mai creduto che ripercorrere passo per passo i miei anni passati in quell’incubo potesse essere così liberatorio, mi sentivo più leggera, anche se mi sentivo ancora sporca,con la consapevolezza che non sarei più potuta tornare pulita proprio come quando era ancora attaccata alla gonna di mia madre.
Con le lacrime che ho versato nel avventurarmi in un luogo orribile, ma esistente emozionandomi,  sbraitando la mia indignazione, ringrazio questa piccola grande donna, perché è grazie a scrittrici come lei che la letteratura torna a reclamare il suo posto non soltanto nelle arti, nella bellezza ma anche nella responsabilità e nell’impegno sociale. Non ti posso dare dei voti Dalila, perché ogni voto è superfluo e non descrive la bellezza che tu mi hai regalato.


di Alessandra Micheli

2 commenti:

  1. Anche qui ti ringrazio con tutto il cuore! Bellissima :)

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  2. Bellissimo!! Ho letto anche io questo meraviglioso libro! Un viaggio nella vera e triste realtà del Bangladesh e di tutto il mondo! Questo libro è la cruda realtà, ma è anche speranza, coraggio, la forza dell'Amore, quello vero!
    Un libro che ti prende completamente, la mente, il cuore e l'anima!

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