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RECENSIONE
tutte coloro che considerano
romantica la violenza, poetico il maschilismo assoluto di un uomo che vede in
te soltanto un corpo di possedere, consiglio di leggere il romanzo denuncia di Dalila.
Se ne escono ancora convinte che il masochismo, il sesso estremo sia una
ventata di freschezza allora sono completamente irrecuperabili.
E’ facile amare la trasgressione
quando non si è vittime, ma questa superficialità nei rapporti è un insulto a quello
che vivono milioni di bambine sfruttate, rapite private dell’innocenza. Qua, in
questo romanzo è scritto nudo e crudo tutto l’orrore che una distorta
concezione del femminile causa. Perché la vicenda di Wendy è responsabilità non
soltanto di barbare usanze, di schifosi commerci, che usano la lussuria come la
nuova frontiera dell’imprenditorialità. Ma è responsabilità del modo con cui
ogni cultura e sottolineo ogni, dalla più degradata alla più sofisticata, ancora
considerano la donna. E ne sono testimoni i libri, gli spettacoli TV, i
giornali che ancora reiterano la concezione che, in fondo la donna è materia e
soltanto uso e manufatto a favore della bestialità umana.
E invece Dalila dice no. Un no
coraggioso e sofferto che si evince da ogni pagina, con la forza indomita di
descrivere situazioni al limite dall’orrore senza cedere al disgusto che si
avverte in ogni riga. Si perché la nostra giovane autrice partecipa davvero
alla vicenda. La racconta con toni che oscillano tra il dolore e l’indignazione
perché sa che è un caso del fato che lei si trovi dall’altra parte. E diventa
una missione il poterlo denunciare; anche nel suo piccolo può modificare la
vita di ogni bambina sfruttata.
Dalila sa che scrivere è potere e
usa questo potere non per guadagnare, ma per plasmare un alternativa valida a
un mondo che continua imperterrito a sottomettere la donna. E Dalila tratteggia
una realtà, a volte le costa lacrime e sangue, non solo per la fatica fisica ma
per il pathos morale di certe descrizioni, perché sa che esistono che sono attendibili
che accadono sempre e accadranno ancora se non si alza la voce, se no si dice
no.
Eppure riesce a dare un soffio di speranza
con l’amore che illumina vite distrutte, con l’attenzione all’altro, con la solidarietà,
quasi come se sussurrasse che a volte basta una mano tesa per non soccombere al
male. E qua il male non è una sorta di demone cornuto, il male è tangibile, si
presenta sotto forma di sete di denaro che porta a un irrispettoso agire di chi
non vede oltre gli stereotipi di genere. Dalila piange descrivendo, con toni
lievi e rispettosi, lo stupro come non soltanto una violazione del corpo ma
dell’anima, atto schifoso, che desidera fortemente annullare la persona con una
ferocia senza significato se non quella di un lontano rancore territoriale.
Come se Wendy, spersonalizzata e considerata un mero numero tre, fosse il capro
espiatorio di ogni stupido contenzioso territoriale e economico. Come se
l’essere umano valesse di meno di una moneta, di uno stato o di una bandiere.
E’ questa la libertà? Il
rivendicare la propria cultura spezzando vite? Spezzando sogni? No. Dalila lo
dice chiaro: la presunta pretesa di combattere in quel caso l’occidente e ogni
nemico, è una scusa. L’intento vero è
stabilire un ordine sociale di vittime e carnefici, di esseri superiori che
decidono la vita del diverso come se fossero loro Dio. Una bestemmia verso la
vita, verso la donna che è stata relegata da angelo a utensile. La donna come proprietà
in cui conta solo la bellezza, l’attrattività, la disponibilità estorta con la
coercizione. E Wendy si perde in quel labirinto di oscurità sottomettendosi
soltanto per poter conservare la lucidità mentale, come se il suo animo le
desse la resistenza necessaria per non cedere. Cedere significherebbe far
vincere quel mondo osceno che è stato instaurato per paura e debolezza. Si perché
i carnefici di questa ragazzine sono esseri deboli, esseri che sostituiscono la
sicurezza di se con la brutalità, schiavi essi stessi, di impulsi bassi e
beceri, incapaci di partecipare alla vita conquistandosi un loro esclusivo
posto al sole. E una cultura impregnata di questo tipo di fragilità si rifà a
spese di anime sognanti, piene di possibilità come se distruggere bambine fosse
un modo vampiresco di succhiarne le energie. Descrive tutto questo orrore
Dalila senza rinunciare alla delicatezza, senza indugiare nella morbosità, un
rispetto per le vittime, per quel dolore che è una voragine di abisso nel cuore
di donne coetanee o addirittura, più piccole. Lo fa a volte con un mormorio,
come a voler rassicurare le vittime durante quegli orrendi attimi. Eppure non
può non piangere con loro, arrabbiarsi, disprezzare, urlare che il suo racconto
è orribile, non orribile per la scrittura ma per l’argomento trattato.
E per dare un senso a questo “raccapriccio”
ecco che l’autrice mette un raggio di speranza in quel buio oscuro: l’amore. Un
amore che è reale e curativo, che lenisce ferite ma che, soprattutto dona
coscienza. E’ grazie all’amore per Wendy che Darehes rompe il legame con la sua
famiglia, con un’eredità scellerata e sceglie finalmente una vita diversa. E’
l’amore che non permette a Wendy di morire dentro, ferita, sporca ma non del
tutto annientata.
Un libro forte, nonostante la delicatezza
di una giovane autrice che ha il coraggio di imporsi diversamente sulla scena
letteraria, diversa dalle sue coetanee perse in un rincorrere la scabrosità
scenica dei testi , un libro che a tratti è cosi forte da toglierti il respiro
ma che leggi senza sosta, accompagnata dalla mano forte seppur a volte tremante
di una ragazza come loro, che si fa portavoce di tutti quei gridi inascoltati.
Non so perché un libro del genere non è alla prime classifiche. So che è
diventato parte nella mia anima, il libro che darei a mia figlia, che farei
leggere nelle scuole perché la voce di Dalila, di Wendy di Savannah racconti e
non smetta mai di raccontare l’orrore. Perché soltanto raccontandolo lo si può
sconfiggere:
Raccontai
tutto quello che mi era successo senza battere ciglio, erano la mia lingua e la
mia bocca a parlare, non il mio cuore. Una volta che si riesce a non far
parlare il cuore, si soffre meno e si dice di più.Non avrei mai creduto che
ripercorrere passo per passo i miei anni passati in quell’incubo potesse essere
così liberatorio, mi sentivo più leggera, anche se mi sentivo ancora sporca,con
la consapevolezza che non sarei più potuta tornare pulita proprio come quando
era ancora attaccata alla gonna di mia madre.
Con le lacrime che ho versato nel
avventurarmi in un luogo orribile, ma esistente emozionandomi, sbraitando la mia indignazione, ringrazio questa
piccola grande donna, perché è grazie a scrittrici come lei che la letteratura
torna a reclamare il suo posto non soltanto nelle arti, nella bellezza ma anche
nella responsabilità e nell’impegno sociale. Non ti posso dare dei voti Dalila,
perché ogni voto è superfluo e non descrive la bellezza che tu mi hai regalato.
di Alessandra Micheli
Anche qui ti ringrazio con tutto il cuore! Bellissima :)
RispondiEliminaBellissimo!! Ho letto anche io questo meraviglioso libro! Un viaggio nella vera e triste realtà del Bangladesh e di tutto il mondo! Questo libro è la cruda realtà, ma è anche speranza, coraggio, la forza dell'Amore, quello vero!
RispondiEliminaUn libro che ti prende completamente, la mente, il cuore e l'anima!